[Fan Fiction] L’intollerabile peso di un fiocco di neve : Prologo

“Cos’è questa roba?”­ chiedo alla locandiera, spuntando oltre l’orlo del piatto di ceramica antiaderente che mi era stato consegnato. La locandiera, una ragazza Albhed, magra e attraente, si fa una forte risata prima di rispondere all’ordine di un altro cliente, senza calcolarmi un secondo di più.

Fantastico. E ora che faccio?

Sto morendo di fame. Forse avrei fatto bene a portarmi lo zaino con dentro la colazione preparata da papà. Almeno sarei sopravvissuta fino all’arrivo di Rin. Invece lo avevo appositamente dimenticato sull’aeronave, sapendo già che papà non fosse esattamente un cuoco provetto. Ma almeno avrei mangiato qualcosa di più o meno commestibile, che mi avrebbe calmato i morsi della fame finché Rin non avrebbe fatto ritorno alla locanda. Lui mi conosce bene, sono un po’ come una figlia per lui. Se solo fosse qui adesso, sicuramente mi farebbe preparare una cenetta coi fiocchi, non come questa stupida inserviente.

Non importa, adesso è inutile ripensarci.

Qualcuno potrebbe pensar male di me, potrebbero addirittura cacciarmi dalla locanda, fuori in mezzo al freddo polare. E io non ho nemmeno un giubbotto.

Dovrei chiedere a Rin di procurarmi degli abiti adeguati. Dopotutto, top e shorts non sono l’abbigliamento adatto per chi va a fare una piccola gita in montagna.

Infilo con cautela due dita nel piatto, incurante del fatto che tutti gli altri clienti della locanda -un ragazzo e un uomo sulla quarantina, giorno di punta evidentemente- mi guardano disgustati, e afferro quel seme piccolo, bianco e caldo, che si sporgeva tra i suoi mille fratelli nella mia scodella fumante. Lo studio con fare scientifico e mi trattengo con molta fatica dal chiedere al signore accanto a me “scusi, mi sa dire cosa sia questo coso?” oppure “sa se la locandiera ha attitudini tipo avvelenare il cibo?”

Lo annuso. Sa di caldo. Odora di niente. Sembra morbido e farinoso. Lo schiaccio con decisione tra l’indice sul pollice.

Ciao ciao semino avvelenato.

“Ma che stai combinando, ragazzina! Il tuo riso si sta raffreddando!” mi urla la locandiera trasportando un enorme vassoio pieno di piatti e bicchieri sporchi.

Già prima non è che mi fossi simpatica. Adesso mia cara puoi anche programmare la tua fine. Nessuno -e dico nessuno- può permettersi di chiamare ragazzina la grande Rikku. Sono due parole discordanti, troppo simili, probabilmente l’una il significato dell’altra. Eppure nella stessa frase suonano malissimo, se non divise da un “no” chiaro e sincero. Odio il sarcasmo.

Ora spero sinceramente che ti cada tutto per terra. Vassoio, piatti, bicchieri, posate. Magari riesci anche a tagliarti quel bel faccino da bambina. Oppure ti si offusca l’occhio che stai strizzando al ragazzo lì in fondo.

Così questa roba bianca e fumante si chiama riso.

Interessante. E io che cominciavo a credere che avrei mangiato solo i piselli e qualche pezzettino di carne, tanto per placare i morsi della fame.

Assaggiamo. Tanto, peggio di così non potrebbe andare. Spero.

Bene. E’ caldo e pastoso. Alcuni chicchi di riso sono meno cotti e fanno uno strano rumore sotto i denti. E’ piacevole. Coi piselli e la carne ci sta molto bene. Fa una bella figura. È pure piacevole alla vista. Dopotutto, anche l’occhio vuole la sua parte.

Infilo in bocca la prima cucchiaiata in bocca, poi la seconda, la terza, la quarta, finché non sfogo la fame graffiante nel finire la scodella il più voracemente possibile, ingoiando porzioni di dimensioni impossibili nell’esofago. Per fortuna, mangio sempre come un ippopotamo e con la voracità di un bicorno. Il mio duro allenamento giornaliero ha reso elastico l’esofago, in modo che io possa mangiare uno shopoof in un solo boccone. Altrimenti mi sarebbe rimasto bloccato in gola tutto il riso, come un tubo otturato.

E dopo tanta foga e voracità, resta solo, sul fondo del piatto, una manciata di riso. Candido, infreddolito. Lo raccolgo nel cucchiaio e lo riporto alla bocca, dove lascio la posata appeso per un po’ tra le labbra, stretta nei denti, con manico sospeso in aria.

Non sa di niente. E’ freddo e insipido. E non so perché, comincio a pensare alla mia vita. Nel migliore posto dove una persona può pensare alla propria esistenza. Seduto al banco di una locanda costruita per qualche motivo in mezzo al nulla e al freddo polare di Macalania, in un mondo troppo affollato per pensare anche per un istante ai suoi abitanti.

È un po’ come stare da uno psicologo. Io e la vuota ciotola di riso. A tenere interessanti discorsi sui guil, su armi che non so nemmeno impugnare e -sulla mia vita.

Prima aveva senso. Credevo di sentirmi appagata e soddisfatta dopo quello che avevo fatto con Yuna e gli altri guardiani. Invece no. Non è cambiato niente; si scindono le epoche, ma io sono la stessa persona di prima. Sarei troppo ottimista se pensassi che dagli avvenimenti passati potessi imparare qualcosa e magari cambiare.

D’improvviso, la mia riflessione si spezza, si frantuma, in un gran fragore che mi fa voltare di scatto il capo. Un rumore dalla cucina mi richiama alla realtà.

Cocchi di ceramica bianca sparsi come mille chicchi di riso su tutto il pavimento.

Alla fine sono riuscita a farglieli cadere tutti. Dubito che siano stati i miei mirabili poteri di telecinesi a fare questo disastro, ma mi compiaccio e sorrido tra me e la ciotola di riso, come se avessimo un segreto unico e importantissimo da mantenere tra noi.

Tutto è iniziato in un giorno come gli altri, talmente normale che lo avrei sicuramente dimenticato. Un normalissimo giorno né afoso né invernale. Era un giorno come tanti, che si affacciava su una storia ormai chiusa quasi del tutto.

Ah, ho detto quasi.

Conclusosi il meraviglioso discorso di Yunie riguardo alla sconfitta di Sin nello stadio di Luka, tra esulti vivaci e urla festose, ci trovammo chissà come a camminare lungo il porto. Come nei sogni. Quando ti ritrovi catapultato da un posto all’altro, senza rendertene conto. Guardavamo l’orizzonte azzurro, il mare non più nemico.

No, solo io lo guardavo.

Accadde in un attimo. Un rombo di motori mi alzò lo sguardo e vidi l’aeronave che si accingeva ad atterrare alla banchina otto -la stessa che, qualche tempo prima, aveva accolto l’arrivo di Lord Mika- per quanto permettesse lo spazio. E papà stava ai comandi, insieme a mio fratello. Credo che fossero felici e impazienti di potermi rivedere viva e salva.

No, salva proprio non direi.

Appena sceso dal portellone principale, borbottando incomprensibilmente tra sé e sé, papà mi era corso incontro con una velocità di passo che non avrei mai immaginato e mi aveva abbracciata con una tale potenza che mi aveva sollevata da terra. A certe effusioni sono ancora poco abituata, non so mai cosa dire o fare. Quindi sto zitta. Oppure mi lamento come una matta.

Sta per spezzarmi la colonna vertebrale. Vabbe’, dopotutto, un po’ lo merito.

Mi aveva messa di nuovo giù, solo quando le mie lamentele gli erano giunte insopportabili alle orecchie. Finalmente a terra mi aveva guardata per la prima volta da quando era arrivato e avevo dovuto alzare lo sguardo per vedergli il viso, alto e massiccio com’era. E mi aveva guardata, come si guarda un bel quadro, oppure la statua di un invocatore.

Orgoglioso.

Papà faceva sempre degli sproloqui infiniti e terribilmente noiosi. In qualunque situazione. Ed erano così mortalmente inutili che spesso era difficile restare ad ascoltarlo e seguire il filo spesso dispersivo del suo rimprovero. E allora cominciavo a contare, almeno finché non la smetteva e prendeva fiato.

E ricominciare, una, due, tre volte.

Quando invece avrebbe dovuto dire qualcosa, quando chiunque avrebbe detto qualcosa, lui se ne stava in silenzio. E si limitava a guardarti con quei suoi occhi castani senza sfumature, che racchiudevano dentro le pupille tutto il sole di Bikanel. Aspettandosi che quello sguardo avrebbe detto tutto che non diceva.

No papà. Questo sguardo non significa niente.

Dopo il mistico sguardo-che-non-parla, mi aveva scartata di lato sempre senza aggiungere verbo e si era diretto verso Yunie, probabilmente per un altro abbraccio degno di un lottatore di sumo.

Guardavo solo l’aeronave. E intanto pensavo che quella sarebbe stata la mia nuova casa. Già, perché la mia casa era stata distrutta. E non l’avrei più rivista. Credo che il mio cervello avesse rimandato ogni pensiero alla mia vecchia cameretta, nella Base, dove papà mi dava la buonanotte accarezzandomi i capelli, dove avevo appeso i disegni di tutta la famiglia, anche di coloro che non avevo mai visto. Lo stesso posto in cui mi chiudevo quando litigavo con mio fratello, oppure quando c’era troppo sole per giocare fuori e allora, per passare il tempo, aprivo la finestra e guardavo fuori. E immaginavo oltre le dune il mare che circondava Bikanel. Tanto oro sabbioso sotto, sopra, intorno a me, in ogni direzione. Con tanta ricchezza mi circondava, potevo considerarmi una vera principessa. Ma adesso sono grande e so che le vere principesse sono vestite di stracci, lavano immense scalinate e fanno le sguattere prima di incontrare il loro principe e diventare principesse, per poter vivere il loro “per sempre felici e contenti”.

Io non sono una sguattera. E non diventerò una principessa come quelle delle fiabe. E forse non avrò mai il mio lieto fine. Almeno non quello di cui vantano le principesse fiabesche.

Il punto è che una vita trascorsa a Bikanel ti insegna a sognare. Come gli intercessori di Zanarkand, con la sola differenza che loro sognavano il passato. Il sogno, in tutta la sua purezza, nel suo significato primario, nasce con gli Albhed. Gli Albhed sognano, sognano tanto, sognano qualunque cosa, situazioni impossibili poste in luoghi completamente inesistenti.

Ma i sogni sono permessi solo ai bambini. Ai grandi no, non è lecito, non sarebbe possibile.

Da grandi non c’è più tempo per sognare.

Un gemito strozzato mi fece voltare di scatto. Papà stava per uccidere nel suo abbraccio l’invocatrice che era sopravvissuta a Sin. Credo che se avesse insistito, Yunie sarebbe stata ricoverata nel tempio più vicino per la frattura di ben quattro vertebre.

E non ti dà molto onore spezzarsi quattro vertebre in un abbraccio quando sei l’invocatrice che ha salvato Spira. È abbastanza ridicolo, a dire il vero.

Dopo una lunga e dura battaglia, i combattenti fieramente sopravvissuti vengono accolti clamorosamente con gioia e acclamati come eroi. Ma dopo? Cosa c’è alla fine della storia?

Gli eroi ritornano a casa. Ritornano alla loro vita di sempre, promettendo di conservare il ricordo di chi non è tornato a casa.

Ma questa non è solo una litania che percorre i libri. E’ la realtà di ogni guerra e chi parte è sempre pronto a dire addio alla propria terra, pensando che probabilmente non potrà più rivederla.

E anche tra noi, ognuno aveva un posto dove andare. Una casa alla quale fare ritorno, una famiglia o una comunità da riabbracciare, dopo averle detto addio pensando di non rivederla mai più. E lo so, non c’è niente di più dolce e rassicurante che ritrovare qualcosa che credevi aver perso per sempre. Per esempio, Lulu e Wakka sarebbero ritornati a Besaid, alla loro piccola dimora. Alla loro normalità. Per sempre.

E vivranno come vivono le persone normali portandosi dietro memorie che posso avere solo persone che hanno vissuto lo straordinario.

Non esattamente da persone normali, vero?

Ma ci proveranno. E se lo faranno con desiderio, ci riusciranno. L’importante è crederlo. Credere è la forza più potente di Spira, al di sopra di tutto. Oltre Sin, oltre la vita, più forte della morte. La -ormai sconfitta- forza yevonita ne è una prova consapevole così ovvia mi sento banale nel citarla.

Chiunque aveva una terra da baciare, una casa alla quale fare ritorno.

Tranne me.

Caro il mio cervello, sei pregato di non darmi fastidio e di tenere riservate per te le tue osservazioni. Non cercare di condividerle con me, non mi interessa sapere dove vagano i tuoi neuroni. Anzi, se proprio vuoi saperlo, tienili stretti, legali da qualche parte se ci riesci. Le persone che mi stavano intorno hanno sempre dubitato della tua esistenza; io no. Ma ti odio, cervello mio. Basta coi tuoi pensieri, con le tue opinioni.

Entra in coma profondo, come pensavano tutti.

E lascia fare a me.

Salutati i miei compagni di squadra, papà mi aveva presa per mano, come quando ero ancora una bambina, e mi aveva accompagnata fino al portellone dell’aeronave, a passo lento e disinvolto, con un atteggiamento quasi regale. Ho camminato, senza voltarmi, senza guardare l’aeronave, senza pensare. Senza stringere la mano di papà. Mi sono girata solo sul portellone, prima che si chiudesse, mentre gli occhi si appannavano e l’unica immagine che mi si impigliava nella retina era quella di Yuna e del suo kimono volteggiante, mentre mi salutava agitando la mano. E io l’ho guardata, lacrimante, con la porta che si chiudeva, finché anche l’ultima immagine è stata inghiottita dal buio profondo.

Il tonfo del portellone principale che sbatteva chiudendosi. Poi è finito tutto.

Quel giorno, qualcuno mi ha vista piangere.

Ma si sbagliavano.

Hanno visto quella mia lacrimuccia sperduta e l’hanno messa nell’occhio felice di uno spirito commosso. Ma solo perché le persone non riconoscono il dolore nemmeno se glielo metti sotto il naso oppure ti scrivi sul viso a caratteri cubitali “sto soffrendo”.

Io rido. Rido spesso. Ma ridere non è essere felice. Ma la gente non lo capirà mai, è inutile provarci. E’ una prerogativa delle persone; conoscono solo il proprio dolore. E non fanno che ignorare o sminuire quello altrui. E se qualcuno se ne accorge e dice -inutilmente- che capisce, probabilmente lo fa per semplice cortesia. E ammesso il caso che capisca per davvero il tuo dolore, non potrà mai provarlo.

Il dolore è un’inviolabile proprietà privata che vorremmo vendere al primo passante. Ma chi comprerebbe un cuore che non funziona? Chi comprerebbe due occhi annacquati? Chi mai comprerebbe le mie lacrime infantili?

Probabilmente non è colpa di nessuno. È normale. Come respirare. Come provare odio.

Forse è stata colpa mia.

Non si dovrebbe mai piangere in pubblico. Rischi di sembrare stupido o infantile, e ti sentiresti incompreso. In verità, dietro certe lacrime, quelle che tratteniamo da tanto, è nascosta più maturità degli eterni silenzi in cui preferiremmo immergerci.

Si affoga sempre da soli, annegando nelle lacrime, sommersi dalla disperazione.

E’ stato una notte.

Nell’aeronave c’erano delle stanze in cui stavano stipate delle brandine per la notte. Molti stavano nella stessa stanza, cercando di farsi spazio come potevano.

Avevo preferito non occupare spazio tra gli altri e avevo trovato una -più o meno degna- sistemazione in un ripostiglio polveroso, grande quanto una cimice. Era bastato spostare delle travi e dei pezzi di ricambio per la nave e mettere a terra un paio di coperte per formavano uno strato sottile quanto un foglio di carta, ma almeno non avrei dormito per terra.

Il buio era assoluto, dovetti accendere una torcia elettrica caricata con una saetta -il mio zaino era ancora pieno di tutte quelle diavolerie che Tidus mi regalava quando andavamo lungo la Piana dei Lampi per farmi distrarre- per farmi un po’ di luce in quel buio insopportabile che dava troppo sostegno ai miei ricordi e alle mie fantasie.

Mi sdraiai con cautela sulle coperte e mi strinsi le gambe al petto per trattenere tutto il calore possibile, per quanto non facesse esattamente freddo. L’umidità era tangibile in quel buco di ragnatele e casse piene di bulloni e cacciaviti.

In quel buio senza pari, mi promisi che non avrei pensato a Sin. Non avrei pensato al pellegrinaggio. Non avrei pensato alla Base.

Ma era impossibile non pensare a casa mia. Ormai era troppo consapevole il pensiero che l’aeronave stava vagando senza meta nel cielo, alla ricerca di un attracco temporaneo, senza una terra promessa alla quale fare ritorno. In quel momento mi sentii anche io così. Vagabonda. Dannata. Una goccia di pioggia nel vento, praticamente.

La nostra aeronave volava, oltre le nuvole, oltre la terra, superando mari e città. Credo che quella notte abbia volato per miglia e miglia, senza fermarsi, perché non esisteva su Spira terra che potesse accoglierci. I Guado avevano invaso la nostra Base e noi avevamo dovuto distruggerla, ricordo il drammatico momento in cui, cantando l’inno, facemmo esplodere la Base. È vero, poteva andare peggio, potevamo morire tutti, potevamo restare coinvolti nell’esplosione -ma è troppo difficile sentirsi salvi. In quel momento riuscivo solo a pensare a tutto quello che avevo perso e che prima avevo gelosamente conservato.

Le cose di mia madre, i gioielli della nonna, i miei giocattoli -e altre cose.

Ero stanca e stressata, piegata dalla fatica e dal sonno. Mi addormentai quasi subito, preda dei miei incubi peggiori. Nel mio sonno agitato feci un sogno strano.

Sognai la sabbia di Sanubia. E sognai una bambina coi capelli biondi, stretti in due trecce.

Sono io? Sono io!

E sognai un’oasi che brillava sotto il sole cuocente del deserto. L’acqua cristallina era luccicante come un mare di guil tintinnanti, in cui mi sarei tuffata con piacere, come una sirena che si immerge nel suo mondo sconfinato.

E sognando, sognai un padre. O almeno, aveva la faccia di un padre. Di mio padre. Perché forse era proprio lui. Era un padre all’ombra di una palma, seduto nella vegetazione, col sudore sulle tempie, che cercava il vento, che ringraziava l’ombra, che aspettava la sera.

Un padre che raccontava una storia.

La storia che raccontava parlava di un tempio di ghiaccio. Disperso, proibito a tutti gli Albhed. Un antico tempio millenario, custode di un’energia potentissima, circondato da un immenso deserto bianco e l’unica via per raggiungerlo era attraverso un bosco fittissimo ed intricato.

Il bosco che c’era in tutte le fiabe che mi raccontava papà, con la differenza che questo era vero.

Probabilmente una bella storia che i viandanti si raccontavano, oppure che i ragazzi mormoravano sotto voce, come quando si parla di un segreto forte e tenebroso. Un bosco di ghiaccio, alberi frondosi, foglie lunghe e sottili, dure e luminose come lami di coltelli.

Io conosco questo posto.

La consapevolezza arrivò col risveglio. Io ero stata in quel posto, ero entrata nella favola. Era il sogno di ogni bambino, entrare nel proprio sogno, e io l’avevo inconsapevolmente fatto. Avevo attraversato il bosco, ero arrivata nel deserto, e avevo visto il tempio di ghiaccio. Avevo superato tutte le sue prove e avevo conosciuto la mistica entità che nascondeva al suo interno.

Questo favola. Questo posto. Io ne conosco il nome.

Macalania.

Il nome rimbombò nel sogno e prima che io potessi afferrarne il significato voci confuse oltre la porta e nei corridoi mi trascinarono dal sonno al risveglio. Ma il sogno non era svanito, e la favola era rimasta nei miei pensieri più misteriosi, nascondendosi nelle ombre del mio inconscio. La consapevolezza allargò le mie pupille dallo stupore. Di prima mattina scattai dal mio giaciglio e, correndo nel corridoio, mi precipitai dal pilota, invertendo la rotta dell’aeronave.

Se papà non mi avesse vista e fermata in tempo, forse avrei rotto i comandi.

“Macalania! Devo andare a Macalania!”

Ecco, così è iniziata la mia nuova storia. Perché la mia vita non poteva finire con il pellegrinaggio, doveva andare avanti. C’è ancora tanto, troppo tempo, e per combattere i ricordi, posso solo continuare a vivere il rischio e partire di nuovo. Devo lasciare la mia famiglia, il mio popolo.

Papà non voleva che io ripartissi così presto, non riusciva nemmeno a vedermi di nuovo parte della famiglia. Avrebbe preferito rinchiudermi nell’aeronave, al suo fianco, a vagare forse non in eterno, a cercare ancora la terra promessa.

Papà, ti voglio bene.

E so che anche tu me ne vuoi. Perché tante volte trascuri l’affetto per lasciarmi andare via. Volo dalle tue mani, con la promessa di tornare. E lo sai, io tornerò, quando lo troverò opportuno. Quando sarà il momento di voltare le spalle e di fare marcia indietro, quando hai percorso troppa strada e non sai più dove andare. Quel giorno, saremo di nuovo una famiglia.


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