[Fan Fiction] L’intollerabile peso di un fiocco di neve : Capitolo 2

Il mio nuovo pigiama, il famigerato regalo di Rin, mi sta alla perfezione. È così evidente che mi piacciono i pigiamoni caldi e sformati? A quanto pare sì, visto che ha praticamente centrato il mio genere. È morbido e caldo, in uno splendido tessuto azzurro cielo. Sul petto, giocano allegramente due chocobo, il primo pascola tra due ciuffi d?erba mentre l?altro gli tira la coda con il becco. Sono bellissimi. Soprattutto il secondo, ha due occhioni azzurri splendidi. Il suo becco è adunco, di un sano colore arancio.

Adoro i chocobo. Magari un giorno passerò per la Piana della Bonaccia, e mi metterò a rincorrerli. Perché no? Potrei lavorare con quel tipo che voleva fondare un allevamento di chocobo-

Mi volto verso la finestra: il tempo fuori è splendido. Un pallido sole fa brillare il ghiaccio sugli arbusti e sulle rocce, la neve sembra morbida, paffutella, come il riso fumante che giace nella mia ciotola.

Ne raccolgo un po? nel cucchiaio e me lo porto alla bocca, mangiando senza impegno né voglia. Rin mi ha ripetuto più volte che bisogna fare sempre colazione quando fa così freddo. Dopotutto, mangiare qualcosa di caldo non è così spiacevole, poi il riso mi piace. Non sono mai stata molto scettica riguardo al cibo, perché a Bikanel non si mangia molto. Ci accontentiamo di qualche frutto dolciastro che cresce sulle teste dei cactus -evitando accuratamente di ingoiare le spine- o della carne di qualche animale. Così descritta la vita a Bikanel sembra una galera, ma probabilmente è anche peggio se ora penso a questa meraviglievole e noiosissima calma mentre mangiucchio riso.

Poso la ciotola vuota sul bancone in fondo alla stanza, pensando a come passerò il tempo -a come mi annoierò- oggi. Le possibilità non sono tante, mi devo accontentare, non ho intenzione di arrivare al delirio nemmeno questa volta.

Completamente immersa nei miei pensieri, riprendo il mio posto sul divano, e incrocio le gambe sul cuscino. Con la stessa cura di un cane che si ispeziona il pelo, studio attentamente le -doppie- punte dei miei capelli. Maledizione, sono diventati ancora più biondi, sembro una vecchia bambola di porcellana, di quelle che passano di generazione in generazione, con tutte le ferite che si riportano in seguito a qualche caduta o a qualche gioco pericoloso. La cosa non mi rallegra.

Cosa può fare un?adolescente bionda per diventare bruna?

Darei tutto quello che ho per una capigliatura color nero corvino. E magari anche qualche ricciolo. Peccato che gli Albhed siano tutti biondi, con gli stessi occhi verdi.

Pazienza se i miei capelli non sono come li voglio io, non ho il coraggio di tingerli e non credo lo farò. Non sono mai stata vanitosa, né mi interessa granché il mio aspetto. Se fossi una brava principessa accetterei le mie caratteristiche come una dote di tutti gli Albhed.

Ma per fortuna non sono una brava principessa.

Ho afferrato un maglione bianco col collo alto, e me lo sono infilato con violenza, un paio di jeans, i più caldi di cui disponevo, e mi sono infilata gli scarponi da neve.

Quando Rin mi vede sulla porta della locanda, mi blocca con un forte e perentorio ?Dove vai??

?Vado a giocare fuori!? gli rispondo, con tono deciso. Lui mi fissa per qualche istante, senza che un muscolo esprima i suoi pensieri, poi mi sorride.

?Va bene, ma non senza questi!? mi agguanta per il cappotto e mi stringe una sciarpa al collo e mi infila sui capelli un cappello di lana che mi cala fin su gli occhi.

Accidenti a te Rin.

Mi allento la sciarpa e tiro in su il berretto mentre esco di casa, richiudendomi la porta alle spalle. Fuori non c?è vento, ma si sente un freddo potente, che penetra dentro le maniche del mio cappottone, che passa attraverso le maglie della lana, attraverso i fili dei jeans. Infilo fino ai gomiti le mani guantate nelle tasche del cappotto per riuscire a proteggermi dal gelo.

Fa molto freddo quando sei sotto le coperte o vicino alla stufa. Ma non posso certo restare in status panda-in-letargo tutto il giorno.

Comincio a prendere qualche passo lungo il sentiero, affondando le scarpe nella neve. Sono un po? delusa. Non c?è molto da vedere. Sono quasi tutti arbusti ghiacciati, rocce blu, e neve. Tanta, neve. Un deserto bianco. È strano come due cose completamente diverse si assomiglino tanto. Caldo asfissiante. Gelo polare. L?equilibrio dei contrari.

Mi sento quasi a casa.

Davanti a me c?è il lago. Anzi, c?era. Al suo posto resta un baratro profondo e schifosamente oscuro. Ciò mi riporta tanti ricordi alla mente, le dure battaglie, le tante corse a perdifiato. Il pellegrinaggio.

Mi inginocchio nella neve, guardando il baratro oscuro.

Qui ho combattuto contro mio fratello.

Certo, non era la prima volta che litigavamo, era successo altre volte di avere dei brevi combattimenti. Da piccoli, una volta, mi colpì con una saetta mentre ero in acqua -aspetta, non lo aveva fatto per salvarmi da un mostro marino?- e papà dovette intervenire, altrimenti sarei morta sul colpo.

Altro che mostro marino!

Però, nonostante i molteplici litigi e le risse -più o meno sanguinolente- io voglio bene a mio fratello. Ma quella volta ho temuto davvero di perderlo. Di perdere la mia famiglia, la mia vera famiglia. Ma l?ho messa in gioco per la salvezza di Yuna, una cugina mezzosangue che nemmeno conoscevo prima di allora.

Forse non l?ho fatto per Yuna. Dico, non solo quel combattimento, ma il pellegrinaggio intero. Forse l?ho fatto per me stessa. Perché non ne potevo più degli insulti, del disonore, dei sacrifici a Yevon. L?ho fatto per me, per il mio popolo, e per Spira.

La neve mi sta lentamente rendendo patetica, tra poco mi farò tagliare i capelli e mi vestirò di nero, tenterò di tagliarmi le vene e sarò una depressa-cronica-socialmente-malata. Non che normalmente io sia sana di mente. Diciamo che ora mi rendo conto di essere più malata del solito. In momenti del genere dovrebbero solo mettermi una camicia di forza per costringermi a guardare dei pupazzi o dei giocattoli. Nella mia situazione, un qualunque psicologo, anche il migliore, sarebbe inutile. Una persona così tenterebbe di dare senso ai miei ricordi, alle mie memorie, e questa è assolutamente l?ultima cosa di cui ho bisogno.

Devo smetterla di pensare.

Cervello, adesso ti offro la possibilità di andare in pensione. Vattene e trovati qualcuno che apprezzi le tue profonde riflessione. A una persona come me, ad un Albhed, non serve un cervello.

Devo trovare qualcosa con cui giocare. Ho corso, ho saltato, ho lanciato per aria la neve, ho insultato il mio cervello -ma non mi sono divertita per davvero. Cosa posso fare più?

Mi avvicino di nuovo alla locanda, e mi siedo appena sotto il davanzale della finestra affondando nella neve, per riflettere con più tranquillità. La risposta mi finisce letteralmente davanti al naso.

Appena di sopra, la locandiera sta stendendo i panni su delle grosse corde tese davanti alla finestra.

Cosa vedono i miei occhi? Uno splendido lenzuolo rosso?

Completamente bagnato. Non importa, ho i guanti, devo solo giocarci. Non ci vorrà molto, e se proprio insiste la cameriera, lo laverò io dopo. Non è un problema anche se non sopporto l?odore del sapone per il bucato, oppure detesto tutto il lavoro di sfregamento che mi consuma le dita. Voglio solo giocare, e ridere un po?, magari senza vedere nemmeno il lago.

Tolte le mollette di legno, tiro il lenzuolo nella neve: è pesante, il freddo lo ha reso incredibilmente rigido. Comincio a correre lungo il sentiero, tirandomi dietro il lungo stendardo rosso, lanciando un grido di libertà al vento gelido di Macalania. E comincio a ballare, non so quanto stupidamente, saltellando nella neve, con gli occhi chiusi, immaginando di essere in un posto diverso.

Dunque vediamo. Sicuramente al sole. In una piazza spaziosa. E ci sono io che ballo, facendo volteggiare un mantello broccato, come un?abile ballerina. Sento la musica, il chiacchiericcio della città, gli applausi, i bambini che girano in cerchio a formare un allegro girotondo di cui io sono il centro.

Spicco un balzo con magistrale abilità, e finisco in un cumulo di neve. Morbida, candida. Una ciotola di riso.

Il sogno è finito, e al posto della ballerina nella piazza c?è una ragazzina che saltellava sgraziatamente con un lenzuolo nelle mani.

Mi siedo, massaggiandomi la testa attraverso il berretto, e guardo la neve.

Ora so cosa fare.

Mi inginocchio cautamente e sagomo una forma molto approssimativa di una persona, un essere dal corpo rotondeggiante e robusto, davvero poco verosimile, ma preferisco concentrarmi soprattutto sul viso. Con un sassolino gli ho fatto un occhio, e ho tracciato con le dita il resto dei lineamenti: una riga dritta per la bocca, qualche ciuffo di capelli sulla fronte e il mento appena sull?orlo della palla di neve che avevo appena trasformato in un volto umano in maniera molto superficiale.

Copro il mio pupazzo di neve col lenzuolo. La mia creazione sembra così vera che tra poco si alzerà dalla neve e andrà alla Casa del Viante per ordinare un the verde, e magari prenotare una stanza, visto che non ci sono clienti a cui dare fastidio -ops, volevo dire, da servire

Maledetto lenzuolo rosso.

Non si sfugge ai ricordi. Anche i momenti più insensati come questi possono restituirti il dolore di attimi di sofferenza. Tutto ruota intorno a questo strazio. Papà dice sempre che i miei occhi hanno visto troppo. E quelle immagini si ripetono all?infinito davanti a me. Qualunque cosa che mi circonda ha in sé un ricordo che sfiora le parti più segrete della mia sensibilità.

Auron.

Spero solo che la tua anima abbia trovato pace. Te lo meriti. Brutto vecchio bastardo. Eri l?unico che non mi avrebbe mai dovuto lasciare. L?unico che veramente faceva parte della squadra, quello che ci incitava alle battaglie, che ci sosteneva. Tu dovevi restare. Spira ha bisogno di te. Io ho bisogno di te. Ho ancora bisogno delle tue ramanzine, dei suoi sguardi Se-Non-La-Smetti-Ti-Trapasso-Con-La-Katana.

Maledizione. Ero io quella che meritava di morire alla fine della battaglia contro Sin.

Nessuno merita di morire.

Io ero l?elemento inutile, l?anello debole che più volte ha fatto rallentare il pellegrinaggio, che ha fermato la squadra nella Piana dei Lampi, che non ha portato altro che guai. Di buono avevo solo la forza di volontà, ma non basta solo quella per affrontare un pellegrinaggio, ora lo so.

Tu mi odi, lo capisco. E sappi che io ricambio completamente il tuo odio. Sei solo un vecchio brontolone che non rideva alle mie battute e alle mie cadute epiche, per le quali persino Lulu si concedeva un sorriso. Non facevi che rimproverarmi perché ero troppo sottile fisicamente e sembravo una bambina di cinque anni e mi rimproveravi sulla mia paura dei lampi, dicendo che ero più fastidiosa della tempesta.

Secondo me ti sei pentito subito di avermi permesso di entrare in squadra. Ti detesto. Però sei la migliore persona che io abbia mai visto.

Visto, non conosciuto. Io so solo sostanzialmente chi sei. E mi dispiace. Mi dà rabbia e frustrazione il fatto che non abbiamo mai potuto sederci -solo io e te- davanti ad un fuoco e parlare dei nostri problemi. Non mi sei mai sembrato una persona alla quale va tutto bene, ma in fondo nessuno nel gruppo lo era -Wakka in modo particolare-

Magari mi avresti parlato della tua vita passata, che quando avevi quindici anni come me eri un ragazzino rinsecchito come me, mi avresti detto perché eri un vecchio ubriacone e forse mi avresti persino confessato in gran confidenza, che eri morto, prima che lo capissi quando sei scomparso in un mare di lunioli luccicanti, giusto per risparmiarti inutili addii lacrimevoli.

Se me lo avessi detto prima, tutto sarebbe stato diverso. Non ci sarei rimasta così da schifo, senza parole. Non avrei fantasticato di torturarti fino alla morte -mia o tua, non fa differenza-

Se me lo avessi detto, io, senza alcun turbamento, ti avrei sicuramente chiesto: ?Com?è sentirsi morti? Chi ti ha stecchito?? e mi avresti trapassata con la katana. E se non lo avessi fatto tu, l?avrei fatto io stessa. Lo trovo giusto.

Che stupida, stupida, stupida che sono! Un giorno dovrò imparare a tenere a freno la lingua.

Grazie per non avermi mai parlato. Sai troppo bene che io parlo a sproposito, ma solo perché non so tacere. Poi me ne pento. Perché vorrei essere un po? più seria, più matura.

O perlomeno, zitta.

Sono felice che tu non mi abbia rivolto spesso la parola; magari, ovunque tu ti trovi adesso, se un giorno ti ricorderai di me, mi ricorderai meno chiassosa di quanto io sia in realtà.

No. Lui sa tutto. Conosce anche il mio caratteraccio.

Chissà se hai capito qualcosa di me. A volte mi chiedo se con quell?unico tuo maledetto occhio con il quale mi attraversavi l?anima tu non fossi stato l?unico a capirmi.

Non l?ho mai saputo.

Per questo ti odio. Ti sei tenuto tutto per te. Sia le critiche che gli elogi. E se non fossi già morto, penso ti avrei ucciso io con le mie stesse mani. Forse ti avrei rimproverato, avrei urlato. E dopo averti ucciso, avrei pianto, con tutta la mia forza, fino a stramazzare a terra senza forze.

Ti odio perché volevo solo diventare come te, volevo essere matura, seria, la guardiana perfetta. Così non avresti potuto dire più ?umph? quando inciampavo o simili. Ma non so nemmeno se ammiravi te stesso, e quindi diventare come te non mi avrebbe portato alla gloria nei secoli.

Riderei sulla tua tomba, ma purtroppo non sei mai stato seppellito, sfigato, sei morto da solo come un cane (non che una morte lenta e naturale avrebbe comportato uno scenario diverso).

Eri solo un ammasso di lunioli, di te non restava che una promessa da mantenere e un?anima che non aveva trovato la strada per l?oltretomba.

Ora sei dove dovresti stare. Hai trovato il tuo posto.

Solo io mi sento ancora fuori posto.

Non so per quanto tempo sono rimasta nella neve. Sdraiarsi nel gelo ti da un senso di piacere, di calore, per quanto possa sembrare strano. Arrivi al punto che il freddo comincia a bruciare, come ghiaccio rovente sotto la pelle, come un gelo terribilmente caldo, torrido. Brezza calda il vento, afa il mio respiro.

Il ghiaccio si appoggia nelle mie guance, e d?improvviso fa più freddo. Ha ripreso a nevicare, e un turbinio di fiocchi di neve danza nel vento -qualcosa di inesprimibile né a parole né attraverso un disegno, ma solo con un suono- creando spirali giocose intorno agli arbusti e alle rocce stranamente di colore blu. Qui tutto sembra essere blu. Blu, azzurro, cobalto, tutti colori freddi. Non si sfugge al gelo, nemmeno con gli occhi.

Devo dire a Rin di dipingere una stanza di arancione. Immediatamente. Anzi, forse dovrei proprio tornare a casa. Rin non vuole che resti troppo tempo al freddo, ha paura che mi ammali o qualcosa del genere.

Mi sollevo, un po? a fatica, puntellandomi con forza sulle mani e sui piedi. Credo che mi si sia addormentata una gamba. Non me la sento più, e pizzica.

Pizzica da morire. Non lo sopporto.

Pazienza. La locanda è praticamente qui vicino, magari saranno cinque o sei metri, che fretta c?è? Non mi prenderò una broncopolmonite se mi fermo un po? qui a guardare la neve che cade.

Alzo gli occhi e guardo con ansia in alto: la neve cade in piccoli fiocchi ghiacciati, sembrano fiori di vetro, il vento li trasporta come innumerevoli pezzettini di carta.

E fluttuano. Volteggiano con eleganza, mille silenziose ballerine di cristallo, per poi posarsi con delicatezza su ogni cosa, scintillando nel pallido sole. E tutto sembra inestimabilmente prezioso, candide gemme che ingioiellano la terra.

Chiudo gli occhi e mi sfilo lentamente il berretto di lana dalla testa, lasciando che la neve si impigli nelle mie chiome bionde. Niente, niente riesce a gonfiarmi i capelli, né il cappello né il freddo. Sono maledettamente lisci, come se mia madre mi avesse cucito dei fili di cotone alla testa, come si fa con le bambole di pezza.

Papà dice sempre che ho i capelli di Bikanel, del colore della sabbia. Non mi pare un complimento, anche se a me piace il deserto.

Si, mi piace come ad un prigioniero piace la propria gabbia.

C?è una sfera di sicurezza che circonda Sanubia. Tra mostri e piante velenose, io so che lì sono al sicuro. In qualunque punto, da sola o in compagnia. Io so di non correre rischi.

Dunque in qualunque altro posto oltre Bikanel mi dovrei sentire in pericolo?

Esattamente.

Sospirando, mi volto malinconicamente verso il pupazzo di neve. È freddo, rigido, compatto, il vento agita il lenzuolo alle sue spalle. È il ritratto di Auron, anche senza il mantello rosso e l?occhio in meno. Da lontano potrei persino immaginare che sia lui.

?

Adesso sono gli occhi a pizzicarmi.

Se comincio a piangere adesso -ahahah, carina la battuta, eh?- mi si congeleranno le lacrime sugli occhi, e probabilmente perderò la vista. Il primo passo per diventare una vecchia e stupida brontolona come lui.

Ritorno lentamente sulla via di casa; il sole è ormai alto, e alcune nubi grigie si fanno pian piano spazio nel cielo azzurrino.

Mi incammino verso la locanda, senza più girarmi a guardare Auron. Ormai che senso avrebbe guardarlo di nuovo? È sempre lo stesso, e continuerà ad aspettarmi sotto quell?abete blu dai rami contorti.

Ed è quello lì il suo posto. E, saggiamente, non gli ho costruito delle gambe, perché sarebbe stato capace di scappar via. E non glielo lascerò fare un?altra volta. Non sono così stupida.

Forse.

Sia lodato quell?uomo meraviglioso che ha scritto i dizionari di yevonita. Se un giorno lo incontrassi, lo sposerei all?istante, o come minimo gli darei un bacio in bocca.

E stiamo parlando dei mio primo bacio!

Mi chiedo perché le ragazze abbiano un attaccamento morboso al pensiero del loro primo bacio, per me è una cosa abbastanza scema. E nel mio caso, impossibile. Ma non è che non ci abbia mai, mai, mai pensato. È capitato anche a me. Ed non è stata un?esperienza spiacevole, dopotutto.

Di certo non passo le giornate a rimuginarci sopra. Ormai ho accettato l?idea che sarà molto, molto, molto difficile per me conoscere un?esperienza del genere. A meno che non incontri l?autore dei dizionari di albhed-yevonita. Per questo, vale la pena perdere la giornata in pensieri mielosi e patetici.

Grazie ai suoi utili manuali di lingua -per mezzo dei quali Tidus aveva tentato di imparare la mia lingua- sto cominciando a imparare a leggere. Non è difficile, i segni grafici sono quasi gli stessi, forse solo un po? più eleganti, mentre quelli in albhed sono stilizzati e graffiati. La finezza non è il nostro massimo.

Mi sono subito gettata nella lettura.

Rin ha una libreria molto fornita e, dato che non passa molto tempo nella locanda, penso che non sia così ignobile approfittarne, no? Quei vecchi libroni non li tocca mai nessuno, se li leggo io almeno non saranno mangiati dalla polvere, dalle tarme e qualunque-cosa-viva-nella-dimenticanza.

Mi sono sdraiata prona sul tappeto, con le gambe piegate, all?aria, il mento appoggiato al libro. Sono una brava lettrice, mi appassiono facilmente e mi lascio trasportare dalle parole della storia. Riesco a vedere tutto. Ogni grafema sulla carta diventa un?immagine.

Ma quando la storia mi piace davvero, comincio a leggere più lentamente, soffermo lo sguardo anche sui punti e sulle virgole.

Gli Albhed non curano la lettura; l?intonazione e i segni di interpunzione sono degli optional.

Ma mi sforzo di far sembrare anche loro dei fonemi, e cerco di leggerli, o quantomeno di dare l?idea al mio cervello della loro presenza nel testo.

È uno sforzo immane, visto che non ho mai letto. Ma il desiderio è più forte di ogni altra cosa. Supera anche queste marginali difficoltà. Ma presto riuscirò a leggere bene, me lo sento. Dopotutto, sono sempre stata un?autodidatta. Imparerò. Da sola, come sempre.

Sono sonnolente e sto per chiudere il mio libro di fiabe.

Raperonzolo.

È un titolo assolutamente banale. Deve essere il nome della splendida principessa di turno. Fantasioso, ci sono tipo un altro milione di storie che hanno come titolo il nome della protagonista, e spesso mi chiedo chi abbia lanciato questa tecnica così sfruttata.

Non è una tecnica, è solo mancanza di creatività, ecco il punto.

Leggo le prime righe del brano.

C?erano una volta, in un regno molto lontano, un re molto saggio e una regina capricciosa. Accanto alla loro reggia crescevano delle rape grandi e rigogliose-

Che storia noiosa. Credo che anche io, da brava analfabeta sognatrice quale sono, sarei riuscita a mettere insieme qualcosa di meglio.

Salto le righe, sono stanca e annoiata, ma non mi va di andare a letto, non ancora.

La strega malvagia, adirata per il furto commesso dal re, rapisce la piccola principessa nata da poco e la rinchiude in una torre altissima, destinandola ad una vita di solitudine e di isolamento, impedendole di vedere il mondo se non tramite una piccola finestra.

?

Dire che mi sono tuffata nella lettura, è terribilmente diminutivo. Anche se i miei occhi stanchi e appannati ormai si oppongono alla lettura e sento un tremendo mal di testa, ho intenzione di finire la storia prima di andare a dormire.

Ci sono riuscita? Non ci sono riuscita.

Ma ce l?avrei fatta se la cameriera non avesse afferrata per le spalle e, mentre spegneva la stufa a carbone nella reception, si avesse garbatamente intimato di andare a letto.

Quella notte, tutta la notte, credo di aver sognato. Credo, perché quando mi capita di sognare, due minuti dopo il mio risveglio il sogno svanisce, come se fosse allergico alla luce del sole.

Mi piacerebbe trattenere tutte le rare manifestazioni del mio inconscio, ma lui mi odia, e subito le riprende per sé. Forse è timido, perché io e il mio cervello non abbiamo legato molto. In quindici anni di convivenza non ci siamo parlati molto: io non gli ho chiesto mai aiuto e lui non è mai intervenuto nella mia vita, anche nei momenti in cui avevo più bisogno di lui.

Siamo entrambi molto ostinati.

Ma ogni tanto si mostra a me per meno di dieci ore, e mi racconta i suoi -i miei- problemi.

Quella sera ho -forse- sognato la Base.

Bellissima lei, scintillante nel caldo sole torrido di Bikanel, nel punto più bello e meravigliosamente arido di tutta Sanubia.

Ho sognato la punta più alta della Base. E una finestra che dominava su tutto lo splendido panorama fatto di dune dorate. E lì, una fanciulla dai capelli biondi, che aspettava, aspettava chissà che cosa, e viveva in un buco di aria rarefatta, nel caldo asfissiante del deserto, senza un vivente a farle compagnia.

Magari la fanciulla aspettava che i capelli le crescessero a dismisura, fino a quanto, calandoli dalla finestra, non avrebbero raggiunto terra. Solo allora il principe, saldamente aggrappato alle sue splendide chiome dorate, l?avrebbe portata in salvo dalla sua prigionia.

?.

Ah, giusto per chiarire, è solo un caso che io abbia i capelli biondi come Raperonzolo. È un caso che sia stata isolata da uno stupido mondo che non mi voleva, perché mio padre non voleva perdermi. E la stessa casualità si è manifestata nel mio sogno.

Stupido cervello. Ti preferivo quanto stavi per i fatti tuoi.

L?idea di farmi crescere i capelli non ha mai nemmeno sfiorato i miei pensieri più lontani. È già abbastanza difficile -oltre che fastidioso – avere i capelli lunghi fino alle spalle, tant?è vero che la mia testa è sempre un trionfo di elastici e forcine. Mi danno così fastidio i capelli sciolti che quando vado a dormire mi faccio le trecce, pur di non sentire la loro fastidiosa presenza, tra il collo e il cuscino.

Credo che avere venti metri di capelli da spazzolare e da ordinare -impiegando come minimo un paio di ore, se non si finisce in un nodo di quelli forti – non sia proprio l?ideale, almeno nel mio caso.

Ah, e per intenderci; non trovo alcun legame tra Raperonzolo chiusa in una torre da una strega malvagia e me, confinata in un?isola da mio padre.

?.Si, non c?è assolutamente alcun legame.


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